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Capitolo 24 del libro "Cento ore con Fidel"

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Comandante, voglio farLe una domanda sul subcomandante Marcos. In gennaio 2004 si compirono dieci anni dall’irruzione dei zapatistas a Chiapas, con l’occasione dell’entrata in vigore del Trattato di Libero Commercio del Messico con gli Stati Uniti e il Canada. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa di questa personalità così particolare e che è diventata tanto popolare nel seno del movimento alter- mondialista. Lei lo conosce? Ha letto i suoi testi? Io non posso giudicarlo, ma ho letto alcuni materiali da Lei scritti su Marcos e ciò che si dice di lui è veramente interessante, aiuta a comprendere la sua personalità e a capire anche perché gli è stato assegnato il grado di “subcomandante”. Prima tutti coloro che in America Latina andavano combattevano nelle guerre o in campagne erano generali.

Dalla Rivoluzione Cubana si stabilì un costume, che i capi erano “comandanti”. Questo era il grado che portavo io nel “Granma”. Siccome ero capo di un piccolo Esercito Ribelle, e nella Sierra dovevamo assumere un’organizzazione militare, non potevamo dire “segretario generale della colonna guerrigliera". Così acquistai il qualificativo di “Comandante in Capo”. Comandante era il grado più modesto nell’esercito tradizionale e aveva un vantaggio, che, in effetti, si poteva aggiungere quello di capo. Da allora, nessun movimento rivoluzionario utilizzò mai più il titolo di generale. Tuttavia, Marcos utilizzò quello di subcomandante. Io non l’avevo capito bene, lo interpretai come un’espressione di modestia.

Sì, lui dice: “Il comandante è il popolo; io sono il subcomandante, perché sono agli ordini del popolo.” Bisogna spiegarlo: lui è il subcomandante del comandante popolo. Molto bene. Grazie a questo libro su conversazioni con lui, ho conosciuto molti dettagli, idee, concezioni sue, la sua lotta per la causa indigena. L’ho letto con molto rispetto e mi sono rallegrato per poter contare su un'informazione di questo tipo sulla sua personalità e la situazione in Chiapas. C’è stata dell’audacia, senza dubbio, quando ha fatto poi quel viaggio. Si discute se è stato corretto o no ma, comunque, l’ho seguito con molto interesse.

Lei si riferisce alla “marcia per la pace” su Messico che Marcos ha fatto in aprile del 2001 Sì. Ho osservato tutto con molto interesse, vedo in Marcos integrità, è indiscutibile che si tratta di un uomo d’integrità, concetto, talento. E’ un intellettuale, non importa come veniva identificato quando si conosceva poco di lui. Non sono sufficientemente informato, ma ciò non ha importanza; ciò che importa sono le idee, la costanza, le conoscenze di un combattente rivoluzionario. Mi spiego che può nascere un Marcos, due, cento, perché so, sono cosciente della situazione in cui vivono i popoli indigeni da secoli; l’ho conosciuta in Bolivia, Ecuador, Perù e altri paesi. E vi dico che provo sincera simpatia politica, umana e rivoluzionaria per i popoli indigeni del nostro emisfero.

Lei segue con interesse il combattimento dei popoli indigeni in America Latina? Con molto interesse. Come Lei sa, io ero molto amico del pittore Guayasamín. Provavo grande ammirazione nei suoi confronti, conversai molto con lui e mi parlò con frequenza dei problemi e delle tragedie degli indios. Inoltre, dalla storia si conosce che ci fu un genocidio durato secoli ma comincia a sorgere ormai una maggiore coscienza. E la lotta di Marcos e degli indios del Messico è una testimonianza in più di combattività. E’ quanto posso dirLe rispetto a Marcos. Osserviamo con molto rispetto la linea che segue, così come rispettiamo anche la linea di ogni organizzazione, di ogni partito progressista, di ogni partito democratico. Non ho avuto l’opportunità, non c’è mai stata la possibilità di una conversazione personale con Marcos, non lo conosco personalmente, lo conosco soltanto dalle notizie e dai riferimenti che ho letto su di lui, e so anche di molte persone, tra cui molti intellettuali, che provano grande ammirazione per lui.

Anche in Ecuador c’è un forte movimento indigena, vero? Ammiro, certo, l’organizzazione degli indios in Ecuador, la Confederazione di Nazionalità Indigene (CONAI) e Pachakutik (Nostra Terra), la loro organizzazione sociale, la loro organizzazione politica e i loro leader, sia gli uomini che le donne. Ho conosciuto dirigenti molto bravi anche in Bolivia, dove c’è una combattività formidabile, e conosco il principale leader boliviano, Evo Morales, un uomo notevole, una personalità molto rilevante.

Immagino che si rallegrato per la vittoria di Evo Morales alle elezioni presidenziali della Bolivia, il 18 dicembre 2005. Molto. Quella elezione, contundente, indiscutibile, ha commosso il mondo perché è la prima volta che un indigena è eletto presidente in Bolivia, il che è straordinario. Evo possiede tutte le qualità per dirigere il suo paese e il suo popolo in quest'ora difficile che non assomiglia a nessun’altra. Situata nel cuore dell’America, la Bolivia riceve il proprio nome dal Libertador Simón Bolívar. Il suo primo governate fu il maresciallo Antonio José de Sucre. E’ un paese ricco per la sua gente el il suo sottosuolo, ma oggi è ritenuta la nazione più povera della regione, con una popolazione di quasi nove milioni di abitanti distribuiti lungo un territorio in essenza montuoso di oltre un milione di chilometri quadri. Questa è la cornice e in questo ambito, Evo Morales si proietta nel futuro come una speranza per la maggioranza del suo popolo.

Incarna la confermazione del crollo del sistema politico applicato tradizionalmente nella regione, e la determinazione delle grandi masse di conquistare la vera indipendenza. La sua elezione è l’espressione del cambiamento che si sta sviluppando nella regione. Nuovi venti soffiano in questo emisfero. All’inizio non c’era alcuna certezza riguardo al vantaggio che avrebbe ottenuto Evo alle elezioni del 18 dicembre, e c’era preoccupazione perché potevano esserci manipolazioni al Congresso. Ma quando raggiunse il trionfo con il 54% dei voti ormai al primo turno, e riuscì a vincere anche alla Camera dei Deputati, ciò eliminò tutte le polemiche. E’ stata l’elezione miracolo, l’elezione che ha stravolto il mondo, che ha stravolto l’impero e l’ordine insostenibile imposto dagli Stati Uniti. Dimostra che Washington non può più ricorrere alle dittature come in altre epoche, che l’imperialismo non ha gli strumenti di prima, né può applicarli.

Cuba è stato il primo paese visitato da Evo Morales, il 30 dicembre 2005, proprio dopo essere stato eletto presidente e prima dell’insediamento il 22 gennaio 2006. Lei pensa che quella visita gli abbia creato dei problemi con Washington? La visita amichevole del fratello Evo, presidente eletto della Bolivia, s'inserisce nell'ambito degli storici e profondi rapporti di fratellanza e solidarietà tra il popolo cubano e quello boliviano. Nessuno si può irritare per questo. Nemmeno per gli accordi che sono stati firmati.

Sono accordi per la vita, per l’umanità; non costituiscono reato. Non pensiamo che lo siano nemmeno per gli statunitensi. Come potrebbe offendersi il governo degli Stati Uniti se Cuba aiuta ad aumentare la prospettiva di vita alla nascita dei bambini boliviani? Potrebbe forse la riduzione della mortalità infantile o l'eliminazione dell’analfabetismo offendere qualcuno? Lei crede che in altri paesi latinoamericani adesso si dovrà tenere conto della componente indigena? Ci sono situazioni sociali abbastanza critiche in tre paesi, dove c’è anche una grande forza e una grande componente indigena: Perù, Ecuador e Bolivia. C’è una grande componente indigena anche in Guatemala, ma lì lo sviluppo è stato diverso dagli altri paesi. Ce l’hanno anche i messicani. In modo semplice posso dire che si spiega perfettamente che ci sia un Marcos lottando per i diritti dei popoli indigeni, come potrebbero esserci dieci o cento. In modo particolare mi colpisce la serietà dei dirigenti indigeni che conosco. Ho parlato molto con gli ecuadoriani. Parlano con serietà. Ispirano rispetto, fiducia, sono di grande integrità. E in Ecuador, così come in Perù e in altri paesi, avranno voce in capitolo.

Lei ha detto che prova grande ammirazione per Hugo Chávez, il presidente del Venezuela. Ebbene sì; ecco qui un altro indio, Hugo Chávez, un nuovo indio che, come dice lui, è “miscuglio di indio e meticcio”; veramente lui dice che è un po’ negro, un po’ bianco e un po’ indio. Ma tu guardi Chávez e stai guardando un figlio autoctono del Venezuela, il figlio di quel Venezuela che fu crogiolo di razze, con tutti i nobili tratti e un talento eccezionale. Io sono solito ascoltare i suoi discorsi, e lui è fiero della sua umile origine e della sua etnia mischiata, dove c’è un po’ di tutto, principalmente degli indios autoctoni o degli schiavi portati dall’Africa. Può darsi che abbia ricevuto qualche gene da bianco, e non è male; la combinazione delle cosiddette etnie è sempre positiva, arricchisce l’umanità.

Lei ha seguito da vicino l'evolversi della situazione in Venezuela, e in particolare i tentativi di destabilizzazione nei confronti del Presidente Chávez? Sì, abbiamo seguito i fatti con molta attenzione. Chávez ci fece visita nel 1994, nove mesi dopo essere uscito dalla prigione e quattro anni prima di essere eletto Presidente per la prima volta. Fu molto coraggioso, poiché ricevette molti rimproveri a proposito del suo viaggio a Cuba. Venne e parlammo. Si rivelò un uomo colto, intelligente, molto progressista, un autentico bolivariano. Poi vinse le elezioni. Varie volte. Cambiò la Costituzione, con un appoggio formidabile da parte del popolo. Gli avversari hanno cercato di spazzarlo via medianti colpi di forza o economici. Ha saputo far fronte a tutti gli assalti dell’oligarchia e dell’imperialismo contro il processo bolivariano. Dal Venezuela, durante i famosi quaranta anni della democrazia che precedette Chávez, secondo calcoli da noi realizzati con l’aiuto dei dirigenti di maggiore esperienza del sistema bancario, sono stati trafugati circa 300 miliardi di dollari. Il Venezuela adesso potrebbe essere più industrializzato della Svezia, ed avere l'istruzione che ha la Svezia, se in realtà ci fosse stata una democrazia distributiva, se questi meccanismi avessero funzionato, se ci fosse stato qualcosa di certo e di credibile in mezzo a tutta questa demagogia e a questa colossale pubblicità. Da quando il Governo di Chávez giunse al potere fino al gennaio 2003, quando si istituì il controllo dei cambi, dal Venezuela c’è stata una fuga addizionale di capitale di circa una trentina di miliardi di dollari. Dunque, come noi sosteniamo, tutti questi fenomeni rendono insostenibile la situazione esistente nel nostro emisfero.

L' 11 aprile 2002 ci fu un golpe di Stato a Caracas contro il Presidente Chávez. Lei seguì quel evento? Quando a mezzogiorno dell’11 aprile ci rendemmo conto che la manifestazione convocata dall’opposizione era stata deviata dai golpisti e si avvicinava a Miraflores , capimmo subito che si avvicinavano gravi avvenimenti. In realtà eravamo ad osservare la marcia attraverso Venezolana de Televisión, che trasmetteva ancora. Le provocazioni, gli spari, le vittime, si succedettero quasi d’immediato. Minuti dopo furono interrotte le trasmissioni di Venezolana de Televisión. Conoscemmo allora che alcuni tra gli alti ufficiali si erano pronunciati pubblicamente contro il Presidente. Si affermava che la guarnigione presidenziale si era ritirata, e che l'Esercito avrebbe attaccato il Palazzo di Miraflores. Alcune personalità venezuelano stavano telefonando ai loro amici a Cuba per un ultimo saluto poiché erano disposti a resistere e a morire; parlavano in concreto d’immolazione. Quella notte io mi trovavo in una sala del Palazzo delle Convenzioni partecipando a una riunione con il Comitato Esecutivo del Consiglio dei Ministri. Da mezzogiorno era con me una delegazione ufficiale del Paese Vasco, presieduta dal Lehendakari, che era stata invitata a pranzo quando nessuno immaginava ciò che sarebbe accaduto quel tragico giorno. I loro integranti furono testimoni degli avvenimenti tra le ore 13:00 e le ore 15:00 dell’11 aprile. Dalle prime ore del pomeriggio stavo cercando di comunicarmi telefonicamente con il Presidente venezuelano. Era impossibile! Dopo mezzanotte, alle ore 00:38 del giorno 12 aprile mi informano che c’è Chavez al telefono.

Gli domando sulla situazione in quel istante. Mi risponde: “Siamo qui barricati nel Palazzo. Abbiamo perso la forza militare che poteva decidere. Ci hanno tolto il segnale televisivo. Sono senza forze da mobilitare e sto analizzando la situazione.” Subito gli domando: “Quali forze hai lì?” “Da 200 a 300 uomini molto stanchi.” “Hai dei carri armati?”, gli domando. “No, c’erano carri armati e sono stati ritirati alle caserme.” Gli domando ancora: “Di quali altre forze disponi?” E mi risponde: “Ce ne sono altre che sono lontane, ma non ho comunicazione con loro.” Si riferisce al generale Baduel e ai paracadutisti, alla Divisione Blindata e altre forze, ma ha perso ogni comunicazione con quelle unità bolivariane e leali. Con molta delicatezza gli chiedo: “Mi permetti di esprimere un’opinione?” Mi risponde di sì. Aggiungo con l’accento più persuasivo possibile: “Metti le condizioni di un patto onorevole e degno, e preserva la vita degli uomini che hai, che sono gli uomini più leali. Non sacrificarli e non ti sacrificare.” Mi risponde emozionato: “Sono disposti a morire tutti qui.” Senza perdere un secondo aggiungo: “Lo so, ma credo che posso pensare con maggiore serenità di quanto ne puoi tu in questo momento. Non rinunciare, esigi condizioni onorevoli e garanzie per non essere vittima di una fellonia, perché penso che ti devi preservare. Inoltre, hai un dovere nei confronti dei tuoi compagni. Non ti immolare!” Io avevo ben presente la profonda differenza tra la situazione di Allende l’11 settembre 1973 e quella di Chávez quel 12 aprile 2002. Allende non aveva un solo soldato. Chávez contava su una gran parte dei soldati e degli ufficiali dell’esercito, soprattutto sui più giovani. “Non ti dimettere! Non rinunciare!", ribadì.

Parlammo di altri temi: del modo in cui io pensavo che doveva uscire provvisoriamente dal paese, comunicarsi con qualche militare che vantasse vera autorità nelle file dei golpisti, esporre la disposizione ad uscire dal paese, ma non a rinunciare. Da Cuba avremmo cercato di mobilitare il Corpo diplomatico nel nostro paese e nel Venezuela, avremmo inviati due aerei con il nostro Ministro degli Esteri e un gruppo di diplomatici a prenderlo. Ci pensò qualche secondo e, alla fine, accettò la nostra proposta. Tutto dipenderebbe adesso dal capo militare nemico. Nell’intervista realizzata dagli autori del libro Chávez nuestro a José Vicente Rangel, allora Ministro della Difesa e attuale Vicepresidente, che in quel momento era insieme a Chávez, si legge testualmente: “La telefonata di Fidel fu decisiva affinché non ci fosse immolazione. Fu determinante. Il suo consiglio ci permise di vedere meglio nel buio. Ci aiutò molto.” Lei lo stava incoraggiando a resistere armi alla mano? No, al contrario. Questo è ciò che fece Allende, a mio giudizio nel modo giusto in quelle condizioni, e lo pagò, eroicamente, con la vita. Chávez aveva tre alternative: Barricarsi a Miraflores e resistere fino alla morte; fare un appello al popolo incitando a una insurrezione in modo da scatenare una resistenza nazionale, con infime possibilità di successo in quelle circostanze; o uscire dal paese senza rinunciare né dimettersi per riprendere la lotta con prospettive reali e rapide di successo. Noi suggerimmo la terza.

Le mie parole finali per convincerlo in quella conversazione telefonica furono, in sostanza: “Salva quegli uomini di tanto pregio che sono con te in questa battaglia non necessaria ora.” L’idea partiva dalla convinzione che un dirigente popolare e carismatico come Chávez, tradito e defenestrato in quelle circostanze, se non veniva ucciso, sarebbe stato reclamato con maggiore forza dal popolo –in questo caso con l’appoggio del meglio delle sue Forze Armate— e il suo ritorno sarebbe stato inevitabile. Perciò assunsi la responsabilità di proporgli ciò che gli proposi. Proprio in quel istante, quando c’era l’alternativa reale di un ritorno vittorioso e rapido, non aveva senso la consegna di morire combattendo, come ben fece Salvador Allende. E il ritorno vittorioso avvenne, sebbene molto prima di quel che potevo immaginare

In quei momenti voi avete cercato di aiutare Chávez in qualche modo? Dunque, noi in quel momento solo potevamo agire percorrendo la via diplomatica. Nel cuore della notte convocammo tutti gli ambasciatori accreditati a L’Avana e proponemmo loro di accompagnare Felipe (Pérez Roque), nostro Ministro degli Esteri a Caracas per riscattare vivo Chávez, Presidente legittimo del Venezuela e farlo in modo pacifico. Io non avevo il benché minimo dubbio che Chávez sarebbe ritornato fra poco tempo con l’appoggio del popolo e delle truppe. Ma bisognava preservarlo dalla morte. Proponemmo di mandare due aerei per portarlo qua, nel caso i golpisti avessero deciso di accettare la sua partenza. Ma il capo militare golpista rifiutò la formula, comunicandogli inoltre che sarebbe sottoposto a consiglio di guerra. Chávez vestì la divisa di paracadutista e accompagnato soltanto dal suo fedele aiutante, Jesús Súarez Chourio si diresse al forte Tiuna, comando militare del golpe.

Quando ritornai a chiamarlo, due ore dopo, come avevamo convenuto, Chávez era stato fatto prigioniero dai militari golpisti e si era persa ogni comunicazione con lui. La televisione diffondeva continuamente la notizia delle sue dimissioni, in modo da scoraggiare i suoi sostenitori, e il popolo. Però, in un determinato momento, viene permesso a Chávez di fare una telefonata, e lui può parlare con sua figlia María Gabriela. Le dice che non si è dimesso, che non ha rinunciato. Che è un "Presidente arrestato". Le chiede di farmelo sapere affinché io lo informi al mondo. Sua figlia allora mi chiama subito il 12 aprile alle ore 10:02 e mi trasmette le parole di suo padre. Gli domando d’immediato se sarebbe disposta a informarlo al mondo e lei mi risponde con una precisa, ammirabile e decisa frase: “Cosa non farei per mio padre!”. Senza perdere un secondo mi comunico con Randy Alonso, giornalista e regista della “Mesa Redonda” (Tavola Rotonda, N.d.T.) noto programma televisivo. Con telefono e registratore in mano, Randy telefona María Gabriela al numero cellulare che lei gli mi aveva dato. Erano quasi le ore 11:00 del mattino. Le parole chiare, sentite e persuadenti della figlia vengono registrate e trascritte d’immediato, e consegnate poi alle agenzie stampa accreditate a Cuba e trasmesse dal Notiziario nazionale di televisione alle ore 12:40 del 12 aprile 2002, nella stessa voce di Gabriela. Il nastro era stato consegnato anche ai notiziari televisivi accreditati a Cuba. La CNN dal Venezuela trasmetteva con fruizione le notizie di fonti golpiste; il loro corrispondente all’Avana invece divulgò rapidamente da Cuba, a mezzogiorno, le parole chiarificatrici di María Gabriela. E questo quali conseguenze portò? Bene, questo messaggio venne ascoltato da milioni di venezuelani nella maggioranza antigolpisti e dai militari fedeli a Chávez che erano stati ingannati con la sfacciata menzogna di una sua ipotetica rinuncia. La notte, alle ore 23:15, telefona di nuovo María Gabriela. La sua voce aveva un accento tragico.

L’interrompo alle prime parole e le domando: “Cos’è successo?” Mi risponde che suo padre è stato trasferito di notte, in un elicottero, con destinazione sconosciuta. Le dico allora che bisogna denunciarlo subito e che deve farlo lei. Randy era con me, in una riunione sui programmi della Battaglia delle Idee con dirigenti della Gioventù e altri; portava con sé il registratore e d’immediato si ripete la storia di mezzogiorno.

L’opinione pubblica venezuelana e il mondo sarebbero così informati dello strano trasferimento notturno di Chávez con destinazione sconosciuta. Ciò avviene la notte tra il 12 e il 13 aprile. Sabato 13 aprile, ben presto, era convocata una Tribuna Aperta a Guira de Melena, un comune della provincia di L’Avana. Mentre ritornavo in ufficio, prima delle 10:00 del mattino, telefona María Gabriela. Comunica che “i genitori di Chávez sono preoccupati”, vogliono parlare con me da Barinas, vogliono fare una dichiarazione. Le informo che un dispaccio di un’agenzia stampa internazionale divulga che Chávez è stato trasferito a Turiamo, comando navale ad Aragua, sulla costa nord del Venezuela. Le esprimo il criterio che, per il tipo d’informazione ed i dettagli, la notizia pare veritiera.

Le raccomando d’indagare il più possibile. Aggiunge che il generale Lucas Rincón, Ispettore Generale delle Forze Armate, desidera parlarmi ed, inoltre, vuole fare una dichiarazione pubblica. La madre ed il padre di Chávez parlano con me: tutto normale nello stato di Barinas. La madre di Chávez mi informa che il comandante della guarnigione ha finito di parlare con suo marito, Hugo de los Reyes Chávez, Governatore di Barinas e padre di Chávez. Le trasmetto il massimo di tranquillità possibile. Telefona anche il Sindaco di Sabaneta, il paese dove nacque Chávez. Vuole fare una dichiarazione. Riferisce che tutte le guarnigioni sono leali. È percettibile il suo grande ottimismo. Parlo con Lucas Rincón.

Afferma che la Brigata dei Paracadutisti, la Divisione Blindata e la base dei cacciabombardieri F-16 sono contro il golpe e pronte ad agire. Mi permisi di suggerirgli di fare tutto il possibile per trovare una soluzione senza combattimenti tra militari.

Ovviamente il golpe era fallito. Non vi furono dichiarazioni dell’Ispettore Generale, poiché la comunicazione s’interruppe e non poté essere ristabilita. Qualche minuto dopo, chiama nuovamente María Gabriela: mi dice che il generale Baduel, capo della Brigata dei Paracadutisti, ha bisogno di comunicare con me, e che le forze leali de Maracay vogliono fare una dichiarazione al popolo del Venezuela ed all’opinione internazionale.

Un insaziabile desiderio di notizie mi porta a domandare a Baduel tre o quattro dettagli sulla situazione, prima di proseguire il dialogo. Soddisfa la mia curiosità correttamente; in ogni frase distillava combattività. Gli dico: “è tutto pronto per la sua dichiarazione.”

E mi risponde: “Aspetti un attimo, le passo il generale di divisione Julio García Montoya, segretario permanente del Consiglio Nazionale di Sicurezza e della Difesa. È giunto per offrire appoggio alla nostra posizione.” Questo ufficiale, più anziano dei giovani capi militari di Maracay, non era in quel momento al comando di truppe. Baduel, la cui brigata di paracadutisti era uno degli assi fondamentali della poderosa forza di carri armati, fanteria blindata e cacciabombardieri di stanza a Maracay, stato di Aragua, rispettoso della gerarchia militare, passò il telefono al generale Montoya. Le parole di questo alto graduato furono realmente intelligenti, persuasive ed adeguate alla situazione. Espresse essenzialmente che le Forze Armate venezuelane erano fedeli alla Costituzione.

Con ciò disse tutto. Ero diventato una specie di reporter che riceveva e trasmetteva notizie e messaggi pubblici, con il semplice uso di un cellulare e di un registratore nelle mani di Randy. Ero testimone del formidabile contro golpe del popolo e delle Forze Armate Bolivariane del Venezuela. La situazione in quel momento era eccellente. Il golpe dell’11 aprile non aveva già la benché minima possibilità di successo. Però un terribile rischio gravava ancora sul paese fratello. La vita di Chávez era in grandissimo pericolo.

Sequestrato dai golpisti, era lui l’unica cosa che rimaneva all’oligarchia ed all’imperialismo della loro avventura fascista. Cosa avrebbero fatto con lui? L’avrebbero assassinato? Avrebbero saziato la loro sete d’odio e di vendetta contro quel ribelle ed audace combattente bolivariano, amico dei poveri, difensore indomabile della dignità e della sovranità del Venezuela? Che sarebbe successo se, come a Bogotà alla morte di Gaitán, giungeva al popolo la notizia dell’assassinio di Chávez? Non mi si toglieva dalla testa l’idea di una simile tragedia e delle sue sanguinose e distruttive conseguenze.

Mentre trascorrevano le ore del pomeriggio, dopo le suddette comunicazioni, giungevano da tutte le parti notizie dell’indignazione e della ribellione popolare. Nella città di Caracas, centro principale degli avvenimenti, una folla oceanica avanzava per le vie ed i viali verso il Palazzo di Miraflores e le installazioni centrali dei golpisti. Nella mia disperazione d’amico e di fratello del prigioniero, mi passavano per la mente migliaia di idee. Cosa potevamo fare con il nostro piccolo cellulare? Fui sul punto di chiamare direttamente lo stesso generale Vázquez Velasco . Non avevo mai parlato con lui, né sapevo come l’avrei fatto. Per quella singolare missione non potevo fare uso dei validi servizi di María Gabriela. Ci pensai. Alle ore 16:15 chiamai il nostro Ambasciatore in Venezuela, Germán Sánchez. Indagai con lui se credeva che Vázquez Velasco avrebbe risposto o no. Mi ripose che forse sì. “Chiamalo, - lo pregai -, usa il mio nome, trasmettigli la mia l’opinione che gli avvenimenti potrebbero condurre a un fiume di sangue in Venezuela; che soltanto un uomo potrebbe evitare tali rischi: Hugo Chávez. Cerca di convincerlo di liberare subito Chávez per impedire quel probabile sviluppo degli avvenimenti.” Il generale Vázquez Velasco rispose alla telefonata. Affermò che teneva in suo potere Chávez e garantiva la sua vita, ma che non poteva acconsentire a ciò che gli si chiedeva.

Il nostro Ambasciatore insistette, argomentò, cercò di persuaderlo. Il Generale, infastidito, interruppe la comunicazione. Telefono immediatamente María Gabriela e la informo delle parole di Vázquez Velasco, specialmente sulla promessa di garantire la vita di Chávez. Le chiedo di mettermi un’altra volta in comunicazione con Baduel. Alle 16.49 si stabilisce il contatto. Gli racconto nei dettagli lo scambio Germán-Vázquez Velasco. Esprimo la mia opinione sull’importanza che Vázquez Velasco riconosca di avere in suo potere Chávez. Erano le circostanze propizie per fare la massima pressione. In quel momento a Cuba non si sapeva con sicurezza se Chávez era stato trasferito o no e dove. Si rumoreggiava da ore che il prigioniero era stato inviato all’isola di Orchila.

Quando parlai con Baduel, quasi alle ore 17:00, il Capo della Brigata stava selezionando gli uomini e preparava gli elicotteri che avrebbero liberato il Presidente. Immaginavo quanto difficile sarebbe stato per Baduel ed i paracadutisti ottenere i dati precisi ed esatti per questa tanto delicata missione. Durante il resto della giornata fino alla mezzanotte del 13 aprile, dedicai il mio tempo al compito di parlare, con quante persone potei farlo, sul tema della vita di Chávez. E parlai con molti, perché durante quel pomeriggio il popolo, con l’appoggio dei capi e dei soldati dell’Esercito, controllò tutto. Ignoro ancora a che ora ed in che modo Carmona, il Breve , abbandonò il Palazzo di Miraflores. Seppi che la scorta, sotto la direzione di Chourio ed i membri della Guardia Presidenziale, avevano già nelle loro mani ed occupavano i punti strategici dell’edificio, e Rangel, che si mantenne fermo tutto il tempo, era tornato al Ministero della Difesa.

Chiamai anche per telefono Diosdado Cabello non appena prese possesso della Presidenza. Interrotta la comunicazione per cause tecniche, trasmisi un messaggio tramite Héctor Navarro, Ministro dell’Istruzione Superiore, suggerendogli che, nella sua veste di Presidente Costituzionale, ordinasse a Vázquez Velasco di liberare Chávez, avvertendolo della grave responsabilità nella quale sarebbe incorso se avesse disubbidito a quell’ordine. Parlai con quasi tutti, mi sentivo parte di quel dramma in cui mi coinvolse la chiamata di María Gabriela nella mattina del 12 aprile. Solo quando si seppero tutti i dettagli del calvario di Hugo Chávez dal trasferimento durante la notte del giorno 11, fu possibile provare quali incredibili pericoli affrontò, in cui mise in gioco tutta il suo acume mentale, la sua serenità, il suo sangue freddo ed il suo istinto rivoluzionario. Ancora più incredibile è che i golpisti lo mantennero disinformato di ciò che accadeva nel paese e fino all’ultimo minuto insistettero affinché firmasse una rinuncia che mai sottoscrisse. Un aereo privato, che si dice fosse proprietà di un noto oligarca, il cui nome non menziono per mancanza assoluta di certezza riguardo ai dati, aspettava di trasferirlo non si sa dove e nelle mani di non si sa chi. Le ho narrato tutto quanto so; altre mani scriveranno un giorno con dovizia di particolari ciò che manca a questa storia.

Chávez è un rappresentante dei militari progressisti, ma in Europa, ed anche in America latina, molti progressisti gli criticano proprio il fatto di essere un militare. Quale è la sua opinione riguardo a questa apparente contraddizione tra progressismo e militari? Omar Torrijos, a Panama, fu un esempio di militare con una profonda coscienza della giustizia sociale e della patria. Juan Velasco Alvarado , in Perù, realizzò importanti attività progressiste. Bisogna ricordare, ad esempio, che tra i brasiliani, Luis Carlos Prestes fu un ufficiale rivoluzionario che realizzò nel 1924-1926 un’eroica marcia, quasi uguale a quella che fece Mao Zedong nel 1934-1935. Jorge Amado , tra le sue magnifiche opere letterarie, scrisse riguardo alla marcia di Prestes una bella storia, Il cavaliere della speranza. Quella prodezza militare fu qualcosa d’impressionante, durò oltre due anni e mezzo, percorrendo immensi territori del suo paese senza soffrire una sconfitta.

Durante il recentemente trascorso XX secolo, vi sono state delle importanti prodezze rivoluzionarie realizzate da militari. Posso citare nomi illustri, come Lázaro Cárdenas, un generale della rivoluzione messicana, che nazionalizza il petrolio, fa delle riforme agrarie e conquista per sempre l’appoggio del popolo. Tra i primi che nel XX secolo si sollevarono in Centro America, vi è un gruppo di militari guatemaltechi degli anni 50, legati a Jacobo Árbenz, alto ufficiale dell’Esercito del Guatemala, che parteciparono a storiche attività rivoluzionarie, tra cui la nobile e valorosa riforma agraria che dette luogo all’invasione mercenaria, lanciata dall’imperialismo, come a Playa Giròn e per la stessa ragione, contro quel governo legittimamente meritevole della qualifica di progressista. Vi è un buon numero di casi di militari progressisti.

Juan Domingo Perón, in Argentina, era pure d’origine militare. Bisogna vedere il momento in cui sorge; nel 1943 lo nominano Ministro del Lavoro e fa tali leggi in favore dei lavoratori che quando lo portano in prigione, il popolo riconoscente lo libera. Perón commette alcuni errori: offende l’oligarchia argentina, l’umilia, le nazionalizza il teatro ed altri simboli della classe ricca, ma il potere politico ed economica della stessa si mantenne intatto ed in un momento propizio lo abbatté con la complicità e l’aiuto degli Stati Uniti. La grandezza di Perón è che ricorse alle riserve ed alle risorse di cui disponeva quel ricco paese e fece tutto quanto poté per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. Quella classe sociale, sempre grata e fedele, fino al termine della sua vita trasformò Perón in un idolo del popolo umile. Il generale Líber Seregni, che fino ad alcuni anni fa fu il Presidente del Frente Amplio in Uruguay, è uno dei leader più progressisti e più rispettati che abbia conosciuto l’America Latina. La sua integrità, la sua decenza, la sua fermezza e tenacia contribuirono alla storica vittoria di quel nobile e solidale popolo, che elesse Tabaré Vázquez, successore di Seregni, Presidente della Repubblica Oriental dell’Uruguay, e portò la sinistra uruguayana al governo, quando il paese era sull’orlo dell’abisso. Cuba è grata a Líber Seregni per le solide basi che, insieme a molti eminenti uruguayani, seppe forgiare per le relazioni fraterne e solidali che ci sono oggi tra Uruguay e Cuba. Non possiamo dimenticare Francisco Caamaño, giovane militare dominicano che per mesi combatté eroicamente contro 40 mila soldati degli Stati Uniti, fatti sbarcare dal Presidente Johnson nella Repubblica Domenicana nel 1965 per impedire il ritorno del Presidente Costituzionale Juan Bosch. La sua tenace resistenza agli invasori, a capo di un pugno di militari e civili, durata mesi, costituisce uno dei più gloriosi episodi rivoluzionari scritti in questo emisfero. Caamaño, dopo una tregua strappata all’impero, tornò in patria e sacrificò la propria vita combattendo per la liberazione del suo popolo. Senza un uomo come Hugo Chávez, nato in umile culla e formato nella disciplina delle accademie militari del Venezuela, dove tante idee di libertà, unità ed integrazione latinoamericana furono seminate da Bolívar, non sarebbe sorto in questo momento decisivo della nostra America un processo di tale importanza storica ed internazionale come l’attuale processo rivoluzionario di questo paese fratello. Non vedo alcuna contraddizione.

In Argentina, Perón ed il peronismo continuano ad avere un’influenza politica considerevole. Un’Argentina dove, in certa misura, in dicembre del 2001, il modello neoliberale crollò in modo strepitoso. Cosa ne pensa dei recenti avvenimenti argentini? Quando in maggio del 2003 giunsero le notizie del risultato elettorale in Argentina, con l’annuncio della vittoria di Néstor Kirchner e la sconfitta di Carlos Ménem, sentii una grande soddisfazione. Perché? C’è un’importante ragione: il peggio del capitalismo selvaggio, come direbbe Chávez, il peggio della globalizzazione neoliberale, nel paese latinoamericano che era diventato il simbolo per eccellenza del neoliberalismo, aveva subito una sconfitta.

Gli argentini, sebbene lungi dal raggiungere le mete più ambite, non si rendono conto del servizio prestato all’America Latina ed al mondo quando fecero sprofondare nella maggiore fossa del Pacifico, di oltre 8 mila metri di profondità, un importante simbolo della globalizzazione neoliberale. Hanno iniettato una forza tremenda al crescente numero di persone che in tutta la nostra America si sono resi consapevoli di quanto sia orribile e fatale ciò che così definiamo.

Possiamo anche ricordare che Papa Giovanni Paolo II, che godette del rispetto universale, parlò di “globalizzazione della solidarietà” quando nel 1998 fece visita al nostro paese. C’è qualcuno che potrebbe essere contrario a questa globalizzazione nel più cabale significato della parola, che comprende non soltanto i rapporti tra coloro che vivono all’interno delle frontiere di un paese, bensì nel pianeta, affinché nell’avvenire la solidarietà sia esercitata in un mondo di vera libertà, uguaglianza e giustizia anche da quelli che oggi sprecano, distruggono e mal barattano le risorse naturali e condannano a morte gli abitanti di questo pianeta? Non si raggiunge il cielo in un giorno, ma, credetemi, gli argentini hanno dato un colossale colpo ad un simbolo e ciò è di enorme valore.

L’America Latina continua ad affrontare il problema del debito estero. Il debito, nel mondo, è cresciuto in proporzione alla popolazione. Ora il debito estero totale raggiunge i 2,5 o 2,6 trilioni di dollari! I paesi sviluppati offriranno quest’anno ai paesi del Terzo Mondo, come aiuto ufficiale allo sviluppo, 53 miliardi di dollari. A cambio gli chiedono, come interessi per il debito estero, più di 350 miliardi di dollari! In America Latina questo debito è cresciuto senza fermarsi ed ora ammonta a circa 800 miliardi di dollari. Non lo può pagare nessuno e ciò rende impossibile qualsiasi seria politica di sviluppo. Non si potrà eliminare la fame in America Latina se i governi sono costretti a destinare un quarto delle loro entrate a pagare un debito che hanno già pagato quasi due volte ed ora è quasi il doppio di quello che era dieci anni fa…

Ora gli Stati Uniti propongono come soluzione l’ALCA, l’Area di Libero Commercio delle Americhe. Che cosa ne pensa dell’ALCA?

Un disastro. Ma un disastro che si può evitare. Perché siamo stati testimoni della battaglia ingaggiata a Mar del Plata, i giorni 4 e 5 novembre del 2005, in occasione della chiamata “Riunione delle Americhe”. E’ stata una grandiosa battaglia contro l’ALCA. Erano due le battaglie: una nelle vie e nello stadio, l’altra nel recinto dove erano riuniti i capi di Stato.

A Mar del Plata il nefasto progetto dell’ALCA ne uscì definitivamente sconfitto. L’ALCA significa aprire le frontiere dei paesi che hanno un livello molto basso di sviluppo tecnico ai prodotti di coloro che possiedono i maggiori livelli tecnologici e di produttività, a coloro che fabbricano aerei dell’ultimo modello, a coloro che dominano le comunicazioni mondiali, a coloro che vogliono ottenere da noi tre cose: materia prima, forza lavoro a basso costo, clienti e mercati. Una nuova forma di spietata colonizzazione.

Pensa che ciò possa aumentare la dipendenza dell’America Latina dagli Stati Uniti? Se l’America Latina fosse divorata dall’impero; se ci inghiottisse, come quella balena che inghiottì il profeta Jonas e non poté digerirlo, dovrebbe per forza espellerla un giorno e nascerebbe un’altra volta nel nostro emisfero. Ma non credo che sia facile da inghiottire e ho la speranza che non possa essere divorata. Gli avvenimenti degli ultimi anni lo stanno dimostrando: non si può governare il mondo con un soldato ed una baionetta in ogni scuola, in ogni casa, in ogni parco.

Ho sempre detto che bisogna contare sugli stessi statunitensi, sugli intellettuali e sul popolo statunitense. Quel popolo può essere ingannato, ma quando conosce la verità, come nel caso del piccolo Elián… Quel popolo appoggiò in una proporzione dell’80% il ritorno del bambino cubano Elián González.

Il popolo statunitense oggi si oppone al blocco di Cuba. Quel popolo, in numero crescente, si oppone alla dottrina della guerra preventiva, interventista, nonostante il colpo a tradimento alla città di New York dell’11 settembre del 2001. Dobbiamo contare su esso. Dobiamo anche contare sugli intellettuali europei, poiché uomini come Lei stanno facendo enormi sforzi per creare una coscienza ed hanno contribuito in modo notevole alla creazione della coscienza necessaria.

Inoltre, ci sono ora una serie di governi, in Venezuela, in Brasile, in Argentina, in Uruguay ed in altri paesi, dove si applicano delle misure progressiste. Come vede ciò che sta facendo Lula in Brasile, per esempio?

Ovviamente, con la più grande simpatia. Non dispone di una maggioranza sufficiente al Parlamento; ha dovuto appoggiarsi in altre forze, anche conservatrici, per avanzare alcune riforme. I media hanno fatto una grande pubblicità attorno a uno scandalo di corruzione parlamentare, ma non sono riusciti a implicarlo. Lula è un dirigente popolare. Lo conosco da molti anni, abbiamo seguito il suo itinerario, abbiamo parlato molto con lui, è un uomo di convinzioni, intelligente, patriota, progressista, di origine molto umile e che non se ne dimentica, non si dimentica del popolo che sempre l’ha appoggiato. Penso che tutti lo vedano così. Perché non si tratta di fare una rivoluzione, si tratta di vincere una sfida: far scomparire la fame. Ci può riuscire. Si tratta di far scomparire l’analfabetismo. Anche questo lo può conseguire. Penso che tutti dobbiamo appoggiarlo .

Comandante, pensa che l’era delle rivoluzioni e della lotta armata sia già finita in America Latina?

Nessuno può assicurare che si produrranno oggi dei cambiamenti rivoluzionari in America Latina. Ma nessuno può assicurare nemmeno che non si producano in qualsiasi momento in uno o più paesi. Se analizziamo obbiettivamente la situazione economica e sociale in alcuni paesi, non ci può essere il benché minimo dubbio che si tratti di una situazione esplosiva. In diversi di quei paesi l’indice di mortalità infantile è, per esempio, di 65 su mille nati vivi; nel nostro paese è inferiore a 6,5; in media muoiono dieci volte più bambini in paesi dell’America Latina che a Cuba. La denutrizione raggiunge in alcuni casi oltre il 40% della popolazione, l’analfabetismo ed il semi-analfabetismo continuano ad essere troppo alti, la disoccupazione colpisce nella nostra America decine di milioni di cittadini adulti e c’è anche il problema dei bambini abbandonati, che sono ormai milioni. Il presidente dell’UNICEF mi disse un giorno che se nell’America Latina ci fosse il livello d’assistenza medica e di salute che possiede Cuba, ogni anno si salverebbero 700 mila bambini. Se non si trova una soluzione urgente a questi problemi – e l’ALCA non è una soluzione e non lo è nemmeno la globalizzazione neoliberale– può avvenire più di una rivoluzione in America Latina nel momento più inatteso per gli Stati Uniti. E non potranno incolpare nessuno di promuovere queste rivoluzioni.